SENTENZA DELLA CORTE DI GIUSTIZIA UE SULLE DICHIARAZIONI DISCRIMINATORIE DEL DATORE DI LAVORO
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La Corte di Giustizia ha dichiarato che:
1) Il fatto che un datore di lavoro dichiari pubblicamente che non assumerà lavoratori dipendenti aventi una determinata origine etnica o razziale configura una discriminazione diretta nell’assunzione ai sensi dell’art. 2, n. 2, lett. a), della direttiva del Consiglio 29 luglio 2000, 2000/43/CE, che attua il principio della parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica, in quanto siffatte dichiarazioni sono idonee a dissuadere fortemente determinati candidati dal presentare le proprie candidature e, quindi, a ostacolare il loro accesso al mercato del lavoro.
2) Dichiarazioni pubbliche con le quali un datore di lavoro rende noto che, nell’ambito della sua politica di assunzione, non assumerà lavoratori dipendenti aventi una determinata origine etnica o razziale sono sufficienti a far presumere l’esistenza di una politica di assunzione direttamente discriminatoria ai sensi dell’art. 8, n. 1, della direttiva 2000/43. Incombe quindi al detto datore di lavoro l’onere di provare che non vi è stata violazione del principio della parità di trattamento. Lo potrà fare dimostrando che la prassi effettiva di assunzione da parte dell’impresa non corrisponde a tali dichiarazioni. Al giudice del rinvio compete verificare che i fatti addebitati siano accertati, nonché valutare se siano sufficienti gli elementi addotti a sostegno delle affermazioni del detto datore di lavoro secondo le quali egli non ha violato il principio della parità di trattamento.
3) L’art. 15 della direttiva 2000/43 prescrive che, quantunque non vi siano vittime identificabili, le sanzioni da irrogare in caso di violazione delle norme nazionali di attuazione di tale direttiva debbano essere effettive, proporzionate e dissuasive.
Segue la sentenza della Corte.
SENTENZA DELLA CORTE (Seconda Sezione)
Nel procedimento C‑54/07,avente ad oggetto la domanda di pronuncia pregiudiziale proposta alla Corte, ai sensi dell’art. 234 CE, dall’Arbeidshof te Brussel (Belgio) con decisione 24 gennaio 2007, pervenuta in cancelleria il 6 febbraio 2007, nella causa
Centrum voor gelijkheid van kansen en voor racismebestrijding
contro
Firma Feryn NV,
LA CORTE (Seconda Sezione),
composta dal sig. C.W.A. Timmermans, presidente di sezione, dai sigg. L. Bay Larsen, K. Schiemann, J. Makarczyk e J.-C. Bonichot (relatore), giudici,
avvocato generale: sig. M. Poiares Maduro
cancelliere: sig. B. Fülöp, amministratore
vista la fase scritta del procedimento e in seguito all’udienza del 28 novembre 2007,
considerate le osservazioni presentate:
– per il Centrum voor gelijkheid van kansen en voor racismebestrijding, dall’avv. C. Bayart, advocaat;
– per il governo belga, dalle sig.re L. Van den Broeck e C. Pochet, in qualità di agenti;
– per l’Irlanda, dai sigg. D. O’Hagan e P. McGarry, in qualità di agenti;
– per il governo del Regno Unito, dalla sig.ra T. Harris, in qualità di agente, assistita dal sig. T. Ward, barrister, e dalla sig.ra J. Eady, solicitor;
– per la Commissione delle Comunità europee, dai sigg. M. van Beek e J. Enegren, in qualità di agenti,
sentite le conclusioni dell’avvocato generale, presentate all’udienza del 12 marzo 2008,
ha pronunciato la seguente Sentenza
1 La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione della direttiva del Consiglio 29 giugno 2000, 2000/43/CE, che attua il principio della parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica (GU L 180, pag. 22).
2 Tale domanda è stata presentata nell’ambito di una controversia che oppone il Centrum voor gelijkheid van kansen en voor racismebestrijding (Centro per le pari opportunità e per la lotta contro il razzismo), ricorrente nella causa principale, alla società Firma Feryn NV (in prosieguo: la «Feryn»), convenuta nella causa principale, in seguito alle affermazioni di uno dei suoi direttori che aveva dichiarato pubblicamente che la sua società non desiderava assumere le persone cosiddette «alloctone».
Contesto normativo
La normativa comunitaria
3 Ai sensi del suo art. 1, la direttiva 2000/43 «mira a stabilire un quadro per la lotta alle discriminazioni fondate sulla razza o l’origine etnica, al fine di rendere effettivo negli Stati membri il principio della parità di trattamento».
4 A norma dell’art. 2, n. 2, lett. a), di tale direttiva:
«sussiste discriminazione diretta quando, a causa della sua razza od origine etnica, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga».
5 L’art. 3, n. 1, lett. a), della detta direttiva precisa che quest’ultima riguarda «[le] condizioni di accesso all’occupazione e al lavoro sia indipendente che autonomo, compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione, indipendentemente dal ramo d’attività e a tutti i livelli della gerarchia professionale, nonché alla promozione». Per contro, ai sensi del suo art. 3, n. 2, la stessa direttiva non concerne «le differenze di trattamento basate sulla nazionalità».
6 Ai sensi dell’art. 6, n. 1, della direttiva 2000/43:
«Gli Stati membri possono introdurre o mantenere, per quanto riguarda il principio della parità di trattamento, disposizioni più favorevoli di quelle fissate nella presente direttiva».
7 L’art. 7 di tale direttiva precisa che:
«1. Gli Stati membri provvedono affinché tutte le persone che si ritengono lese, in seguito alla mancata applicazione nei loro confronti del principio della parità di trattamento, possano accedere, anche dopo la cessazione del rapporto che si lamenta affetto da discriminazione, a procedure giurisdizionali e/o amministrative, comprese, ove lo ritengono opportuno, le procedure di conciliazione finalizzate al rispetto degli obblighi derivanti dalla presente direttiva.
2. Gli Stati membri riconoscono alle associazioni, organizzazioni o altre persone giuridiche che, conformemente ai criteri stabiliti dalle rispettive legislazioni nazionali, abbiano un legittimo interesse a garantire che le disposizioni della presente direttiva siano rispettate, il diritto di avviare, in via giurisdizionale o amministrativa, per conto o a sostegno della persona che si ritiene lesa e con il suo consenso, una procedura finalizzata all’esecuzione degli obblighi derivanti dalla presente direttiva.
(…)».
8 L’art. 8, n. 1, della detta direttiva prevede inoltre che:
«Gli Stati membri prendono le misure necessarie, conformemente ai loro sistemi giudiziari nazionali, per assicurare che, allorché persone che si ritengono lese dalla mancata applicazione nei loro riguardi del principio della parità di trattamento espongono, dinanzi a un tribunale o a un’altra autorità competente, fatti dai quali si può presumere che vi sia stata una discriminazione diretta o indiretta, incomba alla parte convenuta provare che non vi è stata violazione del principio della parità di trattamento».
9 L’art. 13, n. 1, della direttiva 2000/43 impone agli Stati membri di istituire uno o più organismi per la promozione della parità di trattamento. L’art. 13, n. 2, di tale direttiva recita come segue:
«Gli Stati membri assicurano che tra le competenze di tali organismi rientrino:
– l’assistenza indipendente alle vittime di discriminazioni nel dare seguito alle denunce da essi inoltrate in materia di discriminazione, fatto salvo il diritto delle vittime e delle associazioni, organizzazioni o altre persone giuridiche di cui all’articolo 7, paragrafo 2,
– (…)».
10 Infine, l’art. 15 della detta direttiva attribuisce agli Stati membri il compito di determinare le sanzioni da irrogare e specifica che tali sanzioni possono prevedere un risarcimento dei danni in favore della vittima e che esse devono essere «effettive, proporzionate e dissuasive».
La normativa nazionale
11 La legge 25 febbraio 2003 contro la discriminazione e di modifica della legge 15 febbraio 1993 sull’istituzione di un Centro per le pari opportunità e per la lotta contro il razzismo (Moniteur belge del 17 marzo 2003, pag. 12844), nel testo di cui alla legge 20 luglio 2006 recante disposizioni varie (Moniteur belge del 28 luglio 2006, pag. 36940; in prosieguo: la «legge 25 febbraio 2003»), è diretta a trasporre nell’ordinamento belga la direttiva 2000/43.
12 L’art. 2 della legge 25 febbraio 2003 vieta ogni discriminazione diretta o indiretta riguardo alle condizioni di accesso alle attività di lavoro dipendente. L’art. 19 di tale legge è volto a recepire l’art. 8 della direttiva 2000/43 relativo all’onere della prova.
13 La legge 25 febbraio 2003 consente inoltre di perseguire le discriminazioni sia penalmente che civilmente. Il giudice, a norma dell’art. 19 di tale legge, può ingiungere la cessazione dell’atto discriminatorio (n. 1) e ordinare la pubblicazione della propria decisione (n. 2) ovvero, a norma dell’art. 20 della detta legge, infliggere una sanzione pecuniaria.
14 Il legislatore belga ha attribuito al Centrum voor gelijkheid van kansen en voor racismebestrijding la legittimazione ad agire allorché sussiste o potrà sussistere una discriminazione, senza che a tale riguardo sia necessaria una previa denuncia.
Causa principale e questioni pregiudiziali
15 Il Centrum voor gelijkheid van kansen en voor racismebestrijding, organismo belga deputato, in applicazione dell’art. 13 della direttiva 2000/43, a promuovere la parità di trattamento, chiedeva ai giudici belgi del lavoro di dichiarare che la Feryn, impresa specializzata nella vendita e nell’installazione di porte basculanti e sezionali, applicava una politica di assunzione discriminatoria.
16 Il Centrum voor gelijkheid van kansen en voor racismebestrijding si basa sulle dichiarazioni pubbliche rese dal direttore di tale impresa secondo cui, sostanzialmente, la sua impresa desiderava reclutare operai installatori, ma non poteva assumere «alloctoni» a motivo delle reticenze della clientela a farli accedere alla propria abitazione privata durante i lavori.
17 Con ordinanza 26 giugno 2006, il voorzitter van de arbeidsrechtbank te Brussel (presidente del Tribunale del lavoro di Bruxelles) respingeva l’istanza del Centrum voor gelijkheid van kansen en voor racismebestrijding, rilevando in particolare che non era provato e nemmeno poteva presumersi che qualcuno si fosse presentato come candidato per un posto di lavoro e non fosse stato assunto a causa della sua origine etnica.
18 In tale contesto, l’Arbeidshof te Brussel (Corte d’appello del lavoro di Bruxelles), al quale il Centrum voor gelijkheid van kansen en voor racismebestrijding si è rivolto in seconda istanza, ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali:
«1) Se sussista una discriminazione diretta ai sensi dell’art. 2, n. 2, lett. a), della direttiva 2000/43 (…), qualora un datore di lavoro, dopo aver collocato un’offerta di lavoro destinata a richiamare l’attenzione, dichiari in pubblico:
“Devo soddisfare le esigenze dei miei clienti. Se lei dice: ‘Voglio quel tale prodotto o lo voglio così o così’, e io dico: ‘Non lo faccio, faccio venire lo stesso quelle persone’, allora lei dirà: ‘Non la voglio più quella porta’. Così io dovrò chiudere bottega. Dobbiamo venire incontro alle esigenze dei nostri clienti. Questo non è un mio problema, non ho creato io questo problema in Belgio. Io voglio solo che la società vada avanti e che alla fine dell’anno raggiungiamo il nostro fatturato e come lo raggiungo?…devo raggiungerlo come vuole il cliente!”.
2) Se per accertare una discriminazione diretta nelle condizioni di accesso al lavoro in un rapporto subordinato sia sufficiente constatare che il datore di lavoro segue criteri di selezione direttamente discriminatori.
3) Se ai fini dell’accertamento di una discriminazione diretta ai sensi dell’art. 2, n. 2, lett. a), della direttiva 2000/43 (…) si possa tenere conto delle assunzioni di soli operai autoctoni in una società consociata del datore di lavoro, allorché viene esaminato l’eventuale carattere discriminatorio della politica di assunzione di siffatto datore di lavoro.
4) Cosa si debba intendere con i termini “fatti dai quali si può presumere che vi sia stata una discriminazione diretta o indiretta”, ai sensi dell’art. 8, n. 1, della direttiva 2000/43 (…). Di quanto rigore debba dar prova un giudice nazionale nella valutazione dei fatti che fanno presumere una discriminazione.
a) In che misura fatti discriminatori precedenti (dichiarazione pubblica di criteri di selezione direttamente discriminatori nell’aprile 2005) costituiscano “fatti dai quali si può presumere che vi sia stata una discriminazione diretta o indiretta”, ai sensi dell’art. 8, n. 1, della direttiva (2000/43).
b) Se una discriminazione constatata nell’aprile 2005 (dichiarazione pubblica nell’aprile 2005) costituisca in seguito una presunzione di perseguimento di una politica di assunzione direttamente discriminatoria. Se – in considerazione dei fatti su cui verte il giudizio principale – sia sufficiente per far sorgere la presunzione (che un datore di lavoro segua e mantenga una politica di assunzione discriminatoria) la circostanza che questi, nell’aprile 2005, alla domanda se, dato che come datore di lavoro non tratta allo stesso modo alloctoni e autoctoni, non sia pertanto un po’ razzista, ha risposto pubblicamente: “Devo soddisfare le esigenze dei miei clienti. Se lei dice: ‘Voglio quel tale prodotto o lo voglio così o così’, e io dico: ‘Non lo faccio, faccio venire lo stesso quelle persone’, allora lei dirà: ‘Non la voglio più quella porta’. Così io dovrò chiudere bottega. Dobbiamo venire incontro alle esigenze dei nostri clienti. Questo non è un mio, problema, non ho creato io questo problema in. Belgio. Io voglio solo che la società vada avanti e che alla fine dell’anno raggiungiamo il nostro fatturato e come lo raggiungo?….devo raggiungerlo come vuole il cliente!”.
c) Se ‑ in considerazione dei fatti su cui verte il giudizio principale – un comunicato stampa congiunto di un datore di lavoro e dell’organo nazionale che combatte la discriminazione, in cui il datore di lavoro conferma almeno implicitamente fatti discriminatori, possa destare siffatta presunzione.
d) Se il fatto che un datore di lavoro non impieghi operai alloctoni faccia presumere una discriminazione indiretta, allorché lo stesso datore di lavoro in precedenza ha riscontrato gravi difficoltà a trovare operai e ha dichiarato inoltre pubblicamente che la sua clientela non lavora volentieri con operai alloctoni.
e) Se basti un singolo fatto a far presumere una discriminazione.
f) Se – in considerazione dei fatti su cui verte il giudizio principale -possa far presumere una discriminazione a carico del datore di lavoro la circostanza che una società consociata dello stesso datore di lavoro assume solo operai autoctoni.
5) Con quanto rigore il giudice nazionale debba valutare la controprova che deve essere fornita quando sussiste la presunzione di discriminazione, ai sensi dell’art. 8, n. 1, della direttiva 2000/43 (…). Se una presunzione di discriminazione ai sensi dell’art. 8, n. 1, della direttiva 2000/43 (…) possa essere confutata da una semplice dichiarazione unilaterale del datore di lavoro alla stampa in cui questi afferma di non discriminare, o di non discriminare più, e che gli operai immigrati sono i benvenuti; e/o dalla semplice dichiarazione da parte del datore di lavoro che presso di lui, ad eccezione della sua consociata, tutti i posti di operaio sono occupati e/o dalla comunicazione che è stata assunta una donna delle pulizie tunisina; e/o se siffatta presunzione, avendo riguardo ai fatti su cui verte il giudizio principale, possa essere confutata esclusivamente dall’effettiva assunzione di operai alloctoni o/e dal rispetto degli impegni presi nel comunicato stampa comune.
6) Cosa si debba intendere con “sanzione effettiva, proporzionata e dissuasiva”, ai sensi dell’art. 15 della direttiva 2000/43 (…). Se la condizione posta dal citato art. 15 della direttiva 2000/43(…) consenta al giudice nazionale – in considerazione dei fatti su cui verte il giudizio principale – soltanto di dichiarare che c’è stata una discriminazione diretta. Oppure se siffatto articolo imponga al giudice nazionale di pronunciare anche l’ordinanza inibitoria, come prevista dal diritto nazionale. In che misura inoltre sia richiesto – in considerazione dei fatti su cui verte il giudizio principale – che il giudice nazionale ordini la pubblicazione della sentenza che emetterà, quale sanzione effettiva, proporzionata e dissuasiva».
Sulle questioni pregiudiziali
19 Si deve preliminarmente ricordare che, nell’ambito dell’art. 234 CE, la Corte non è competente ad applicare le norme comunitarie ad una fattispecie concreta, ma unicamente a pronunciarsi sull’interpretazione del Trattato CE e degli atti emanati dagli organi della Comunità europea (v., segnatamente, sentenze 15 luglio 1964, causa 100/63, van der Veen, Racc. pag. 1091, in particolare pag. 1106, e 10 maggio 2001, causa C‑203/99, Veedfald, Racc. pag. I‑3569, punto 31). Tuttavia, nel quadro della collaborazione giudiziaria instaurata dal detto articolo e in base al contenuto del fascicolo, essa può fornire al giudice nazionale gli elementi d’interpretazione del diritto comunitario che possono essergli utili per la valutazione degli effetti delle varie disposizioni di quest’ultimo (sentenze 8 dicembre 1987, causa 20/87, Gauchard, Racc. pag. 4879, punto 5, e 5 marzo 2002, cause riunite C‑515/99, da C‑519/99 a C‑524/99 e da C‑526/99 a C‑540/99, Reisch e a., Racc. pag. I‑2157, punto 22).
20 In sostanza, il giudice del rinvio chiede alla Corte l’interpretazione delle disposizioni della direttiva 2000/43 al fine di valutare la portata della nozione di discriminazione diretta riguardo a dichiarazioni pubbliche rese da un datore di lavoro nell’ambito di una procedura di assunzione (prima e seconda questione), le condizioni alle quali può essere applicata la regola dell’inversione dell’onere della prova sancita dalla stessa direttiva (questioni terza, quarta e quinta) e la natura delle sanzioni che potrebbero ritenersi appropriate in una fattispecie come quella della causa principale (sesta questione).
Sulla prima e seconda questione
21 Quanto alla prima e alla seconda questione, l’Irlanda e il Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord sostengono che non potrebbe sussistere una discriminazione diretta ai sensi della direttiva 2000/43, e quindi quest’ultima non sarebbe applicabile, allorché l’asserita discriminazione dipende da dichiarazioni pubbliche rese da un datore di lavoro in merito alla sua politica di assunzione, ma in mancanza di un denunciante identificabile che affermi di essere stato vittima di tale discriminazione.
22 È vero, come sostengono i due Stati membri citati, che l’art. 2, n. 2, della direttiva 2000/43 definisce la discriminazione diretta come quella situazione in cui, a causa della sua razza o origine etnica, una persona «è trattata» meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga. Del pari, l’art. 7 della detta direttiva impone agli Stati membri di garantire procedure giurisdizionali accessibili a «tutte le persone che si ritengono lese, in seguito alla mancata applicazione nei loro confronti del principio della parità di trattamento» e agli organismi d’interesse pubblico che agiscono in giudizio «per conto o a sostegno della persona che si ritiene lesa».
23 Tuttavia, da ciò non può dedursi che l’assenza di un denunciante identificabile permetta di concludere per l’assenza di qualsivoglia discriminazione diretta ai sensi della direttiva 2000/43. Come rammenta il suo ottavo ‘considerando’, infatti, quest’ultima mira a «promuovere le condizioni per una partecipazione più attiva sul mercato del lavoro». A tal fine, l’art. 3, n. 1, lett. a), della detta direttiva precisa che quest’ultima riguarda in particolare i criteri di selezione e le condizioni di assunzione.
24 L’obiettivo di promuovere le condizioni per una partecipazione più attiva sul mercato del lavoro sarebbe difficilmente raggiungibile se la sfera di applicazione della direttiva 2000/43 fosse circoscritta alle sole ipotesi in cui un candidato scartato per un posto di lavoro e che si reputi vittima di una discriminazione diretta abbia avviato una procedura giudiziaria nei confronti del datore di lavoro.
25 Infatti, la circostanza che un datore di lavoro dichiari pubblicamente che non assumerà lavoratori dipendenti aventi una certa origine etnica o razziale, circostanza che in modo evidente è idonea a dissuadere fortemente determinati candidati dal proporre le loro candidature e, quindi, a ostacolare il loro accesso al mercato del lavoro, configura una discriminazione diretta nell’assunzione ai sensi della direttiva 2000/43. L’esistenza di siffatta discriminazione diretta non presuppone un denunciante identificabile che asserisca di essere stato vittima di tale discriminazione.
26 La questione relativa alla nozione di discriminazione diretta ai sensi della direttiva 2000/43 deve essere distinta da quella relativa ai rimedi giurisdizionali previsti dall’art. 7 di quest’ultima per far accertare e sanzionare la mancata applicazione del principio della parità di trattamento. Tali rimedi devono infatti, in conformità delle disposizioni del detto articolo, essere accessibili alle persone che si ritengono lese da una discriminazione. Tuttavia, come specificato dall’art. 6 della direttiva 2000/43, le prescrizioni di cui all’art. 7 di tale direttiva costituiscono soltanto prescrizioni minime e la detta direttiva non preclude agli Stati membri di introdurre o mantenere, per quanto riguarda il principio della parità di trattamento, disposizioni più favorevoli.
27 L’art. 7 della direttiva 2000/43, pertanto, non si oppone in alcun modo a che gli Stati membri, nella loro normativa nazionale, riconoscano alle associazioni che abbiano un legittimo interesse a far garantire il rispetto della detta direttiva, ovvero all’organismo o agli organismi designati in conformità dell’art. 13 di quest’ultima, il diritto di avviare procedure giurisdizionali o amministrative intese a far rispettare gli obblighi derivanti da tale direttiva senza agire in nome di un denunciante determinato ovvero in mancanza di un denunciante identificabile. Compete però solo al giudice nazionale valutare se la normativa interna contempli siffatta possibilità.
28 Considerato quanto precede, si devono risolvere la prima e la seconda questione affermando che il fatto che un datore di lavoro dichiari pubblicamente che non assumerà lavoratori dipendenti aventi una determinata origine etnica o razziale configura una discriminazione diretta nell’assunzione ai sensi dell’art. 2, n. 2, lett. a), della direttiva 2000/43, in quanto siffatte dichiarazioni sono idonee a dissuadere fortemente determinati candidati dal presentare le proprie candidature e, quindi, a ostacolarne l’accesso al mercato del lavoro.
Sulle questioni terza, quarta e quinta
29 Le questioni terza, quarta e quinta riguardano il problema di come applicare la regola dell’inversione dell’onere della prova di cui all’art. 8, n. 1, della direttiva 2000/43 a una situazione in cui viene asserita l’esistenza di una politica di assunzione discriminatoria sulla base di affermazioni che un datore di lavoro ha pubblicamente reso con riferimento alla sua politica di assunzione.
30 A tale proposito, l’art. 8 della direttiva 2000/43 precisa che incombe alla parte convenuta provare che non vi è stata violazione del principio della parità di trattamento allorché elementi di fatto permettono di presumere l’esistenza di una discriminazione diretta o indiretta. L’obbligo di fornire la prova contraria, che incombe in tal modo al presunto autore di una discriminazione, è subordinato unicamente alla constatazione di una presunzione di discriminazione, dal momento che quest’ultima si fonda su elementi di fatto accertati.
31 Le dichiarazioni con cui un datore di lavoro rende pubblicamente noto che, nell’ambito della sua politica di assunzione, non assumerà lavoratori dipendenti aventi una certa origine etnica o razziale possono configurare tali elementi di fatto idonei a far presumere una politica di assunzione discriminatoria.
32 Di conseguenza incombe a tale datore di lavoro fornire la prova di non aver violato il principio della parità di trattamento, in particolare dimostrando che la prassi effettiva di assunzione dell’impresa non corrisponde a tali dichiarazioni.
33 Al giudice del rinvio compete, da un lato, verificare che i fatti che si addebitano al detto datore di lavoro siano accertati e, dall’altro, valutare se siano sufficienti gli elementi che questi adduce a sostegno delle proprie affermazioni di non aver violato il principio della parità di trattamento.
34 Di conseguenza, le questioni terza, quarta e quinta vanno risolte affermando che dichiarazioni pubbliche con le quali un datore di lavoro rende noto che, nell’ambito della sua politica di assunzione, non assumerà lavoratori dipendenti aventi una determinata origine etnica o razziale sono sufficienti a far presumere l’esistenza di una politica di assunzione direttamente discriminatoria ai sensi dell’art. 8, n. 1, della direttiva 2000/43. Incombe quindi al detto datore di lavoro l’onere di provare che non vi è stata violazione del principio della parità di trattamento. Lo potrà fare dimostrando che la prassi effettiva di assunzione da parte dell’impresa non corrisponde a tali dichiarazioni. Al giudice del rinvio compete verificare che i fatti addebitati siano accertati, nonché valutare se siano sufficienti gli elementi addotti a sostegno delle affermazioni del detto datore di lavoro secondo le quali egli non ha violato il principio della parità di trattamento.
Sulla sesta questione
35 Con la sesta questione viene chiesto, sostanzialmente, quali sanzioni possano ritenersi adeguate a una discriminazione nell’assunzione accertata sulla base di dichiarazioni pubbliche del datore di lavoro.
36 L’art. 15 della direttiva 2000/43 assegna agli Stati membri il compito di determinare le sanzioni da irrogare in caso di violazione delle norme nazionali di attuazione di tale direttiva. Il detto articolo precisa che tali sanzioni devono essere effettive, proporzionate e dissuasive e stabilisce che esse possono prevedere un risarcimento dei danni in favore della vittima.
37 L’art. 15 della direttiva 2000/43 impone quindi agli Stati membri l’obbligo di prendere nel loro ordinamento giuridico provvedimenti adeguati, idonei a raggiungere lo scopo della detta direttiva, e di garantire che tali provvedimenti possano effettivamente essere invocati dinanzi ai giudici nazionali in modo che la tutela giurisdizionale sia effettiva ed efficace. La direttiva 2000/43 non impone però sanzioni specifiche, ma lascia agli Stati membri la facoltà di scegliere fra le varie soluzioni atte a conseguire lo scopo da essa prefissato.
38 In una fattispecie come quella sottoposta alla Corte dal giudice del rinvio, in cui non vi sono vittime dirette di una discriminazione, ma un organismo abilitato dalla legge chiede che venga accertata e sanzionata una discriminazione, le sanzioni che l’art. 15 della direttiva 2000/43 impone di contemplare nel diritto nazionale devono essere quindi effettive, proporzionate e dissuasive.
39 Se del caso, e qualora ciò dovesse apparire adeguato alla situazione in esame nella causa principale, esse possono consistere nella constatazione della discriminazione da parte del tribunale o dell’autorità amministrativa competente, cui si aggiunga un adeguato rilievo pubblicitario, i cui costi siano quindi a carico della parte convenuta. Esse possono parimenti consistere nell’ingiunzione rivolta al datore di lavoro, secondo le norme del diritto nazionale, di porre fine alla pratica discriminatoria accertata, cui si aggiunga, se del caso, una sanzione pecuniaria. Esse possono inoltre consistere nella concessione di un risarcimento dei danni in favore dell’organismo che ha avviato la procedura giurisdizionale.
40 Di conseguenza, occorre risolvere la sesta questione dichiarando che l’art. 15 della direttiva 2000/43 prescrive che, quantunque non vi siano vittime identificabili, le sanzioni da irrogare in caso di violazione delle norme nazionali di attuazione di tale direttiva siano effettive, proporzionate e dissuasive.
Sulle spese
41 Nei confronti delle parti nella causa principale il presente procedimento costituisce un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le spese sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo a rifusione.
Per questi motivi, la Corte (Seconda Sezione) dichiara:
1) Il fatto che un datore di lavoro dichiari pubblicamente che non assumerà lavoratori dipendenti aventi una determinata origine etnica o razziale configura una discriminazione diretta nell’assunzione ai sensi dell’art. 2, n. 2, lett. a), della direttiva del Consiglio 29 luglio 2000, 2000/43/CE, che attua il principio della parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica, in quanto siffatte dichiarazioni sono idonee a dissuadere fortemente determinati candidati dal presentare le proprie candidature e, quindi, a ostacolare il loro accesso al mercato del lavoro.
2) Dichiarazioni pubbliche con le quali un datore di lavoro rende noto che, nell’ambito della sua politica di assunzione, non assumerà lavoratori dipendenti aventi una determinata origine etnica o razziale sono sufficienti a far presumere l’esistenza di una politica di assunzione direttamente discriminatoria ai sensi dell’art. 8, n. 1, della direttiva 2000/43. Incombe quindi al detto datore di lavoro l’onere di provare che non vi è stata violazione del principio della parità di trattamento. Lo potrà fare dimostrando che la prassi effettiva di assunzione da parte dell’impresa non corrisponde a tali dichiarazioni. Al giudice del rinvio compete verificare che i fatti addebitati siano accertati, nonché valutare se siano sufficienti gli elementi addotti a sostegno delle affermazioni del detto datore di lavoro secondo le quali egli non ha violato il principio della parità di trattamento.
3) L’art. 15 della direttiva 2000/43 prescrive che, quantunque non vi siano vittime identificabili, le sanzioni da irrogare in caso di violazione delle norme nazionali di attuazione di tale direttiva debbano essere effettive, proporzionate e dissuasive.
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